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      Egli, parato ad offrire il suo oro e il suo sangue, ma geloso delle sue libertà, del sacro tesoro della gloria nazionale, non può riconoscere un atto, che ci cancella dal numero delle indipendenti nazioni. E quest'atto non è che il preludio di quello, col quale dovrebbesi comperar la pace.
      L'onnipotenza del popolo in cinque giorni spezzava le catene tedesche dal Ticino a Gorizia; tutto cadeva eccetto Peschiera, Verona e Mantova dove s'intanava un esercito sbaragliato. In quattro mesi di guerra ordinata, con numerose milizie, forti per ordine e per amore alla patria, che sempre vinsero di faccia al nemico, che tutto soffersero lietamente, i nostri condottieri con tanta sapienza s'affaticarono da perdere tutto quello che il popolo aveva guadagnato. Milano, che liberavasi con trecento fucili da caccia, la si consegnava agli Austriaci difesa da piú di settantamila baionette.
      E la perdita costa un'ingente somma, i sospesi commerci, un esercito dissanguato, disperso piú che da ferro nemico da studiati disagi, da pensata fame, ventimila uomini tra morti, feriti, e languenti per febbre, centomila persone poveramente raminghe per le terre svizzere e piemontesi; e perfino l'indipendenza, se l'Italia non provvede a se stessa. Mentre gran parte d'Italia negli anni scorsi giaceva affiacchita, incatenata da governi nell'ozio, pur restava la bellissima e fiera milizia della provincia sarda, sua unica gioia e speranza, suo vanto. E cosí per gettarci nella disperazione, si volle sprecare anche questo tesoro, fra le baionette austriache e il nostro petto non lasciare verun baluardo; onde puossi ben dire, benché sia orribile a dirsi, che l'esercito italiano fu da mani italiane distrutto.


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Pagine politiche
di Goffredo Mameli
pagine 67

   





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