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      Nessun altro scopo, nessun'altra mira.
      g. m.
     
      LA RAGION D'ESSERE DELLA FILOSOFIA_____________________________
     
     
     
      Critica Scientifica e Critica Volgare
     
      Gli uomini mediocri, quelli cioè che i Romani solevano chiamare "vulgares" o che da se stessi si autodefiniscono pratici, per il fatto che non riescono ad elevarsi da alcuni dati della conoscenza empirica ai principi universali del Sapere, partendo da una pretesa contraddittorietà o da una cosiddetta nebulosità della Filosofia, arrivano a concludere con l'affermazione della inutilità di essa per i fini pratici della Vita e le negano ogni ragion d'essere.
      Giustamente dinanzi a queste negazioni i Filosofi ufficiali, siano essi astri di prima o di seconda grandezza, non trovan che da fare una scrollatina di spalle e da ripetere con Dante:
      «Non ragioniam di lor ma guarda e passa»,
      e non potrebbe essere diversamente per colui che, avendo davanti alla mente i più grandi problemi dello spirito, sarebbe costretto a considerare un puro perditempo occuparsi di tanto poco. Ben diversa è la nostra posizione di semplici e modesti cultori per i quali questo scendere a polemizzare coi "vulgares" potrebbe essere invece un salto alle più alte vette della Filosofia umana, se non di quella ufficiale: per questo, senza perdere quella calma e quella serenità di spirito che la Filosofia ha sempre preteso anche dagli ultimi suoi cultori, ci addentreremo nel processo che vogliamo fare fino in fondo, prima di emanare una sentenza di condanna.
      Dunque i vulgares dicono, in parole povere, che la Filosofia non ha alcuna ragione di essere perché non vi sono due filosofi che la pensino allo stesso modo: formulata in tal guisa l'accusa e la condanna, dovremo assodare tre punti e cioè in primo luogo se l'accusa risponda a verità, poi se essa costituisca - come suol dirsi - reato, infine se a questo reato sia adeguata una sentenza di condanna alla inutilità e quindi alla inesistenza.


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La Ragione d'essere della Filosofia
di Giuseppe Mannarino
Tipogr. Abramo Catanzaro
1931 pagine 111

   





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