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      Una nazione così volonterosa dell'esibire pronti aiuti al tesoro dei suoi principi, così magnifica nel porgerli, mostravasi perciò solo meritevole di un accurato reggimento delle pubbliche sue entrate. Nondimeno in tale rispetto poco appagante è il risultamento che presentasi a chi trascorre i ricordi rimasti dell'amministrazione fiscale di quei tempi. Gli auspizi della signoria aragonese erano disfavorevoli per l'erario sardo prima ancora che l'infante don Alfonso se ne impadronisse. Negli stati d'Aragona abbondava meglio la virtù guerresca abile a compiere, che la pecunia necessaria a condurre l'impresa di una lontana conquista. Si ricorreva perciò dal re don Giacomo all'autorità del pontefice, onde col privilegio della riscossione delle rendite ecclesiastiche dei suoi regni un novello mezzo se gli desse di aggiungere al suo scopo [1406] . Ma ciò non bastava alle esigenze. L'esercito era fiorito di gentiluomini prodi ed animosi; e questi presentandosi a fiancheggiare il loro principe in una guerra discosta e rischiosa, se non sopravanzavano quei doveri che cogniti erano nei tempi feudali col nome di cavalcate, tanto altamente meritavano nell'estimazione del sovrano coll'ardore manifestato nell'accingersi all'impresa e colla bravura mostrata nel consumarla, che una ricompensa corrispondente all'importanza dei servigi diventava se non un obbligo rigoroso di giustizia, un uffizio indispensabile di gratitudine. Nella mancanza pertanto di altri espedienti per una così vasta remunerazione nasceva prima che si conquistasse dal re la terra sarda il bisogno di spartirla fra i suoi capitani.


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Storia di Sardegna
di Giuseppe Manno
pagine 1187

   





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