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      La mia fantasia batteva le ali impazienti fra quei misteri e le immagini più folli mi tenevano in perpetua guerra. Dirò tutto in una parola sola, qualunque fosse il destino degli amori di William, io, in quella notte, lo invidiava, lo invidiava fortemente.
      Il dì appresso mi alzai prima del sole, domandai allo stewart se tutti i passeggeri fossero tornati a bordo. Mi rispose di sì, ma che il bell'inglese (così la gente di servizio chiamava William) era ritornato a notte avanzata, quando le ancore erano già levate, e il Thames incominciava a muovere le ruote. Il capitano lo aveva rimproverato duramente, ma egli non se ne era offeso, né aveva risposto parola. Era pallidissimo, e lo stewart che lo aveva guardati fisso, lo credeva malato o fuori di sé.
      William non uscì dalla sua cabina per tre giorni. Lo stewart, il medico, il capitano vi erano entrati, chiedendogli se avesse bisogno di qualche cosa; aveva sempre risposto di no, e li aveva ringraziati. Io m'aggiravo intorno alla sua piccola prigione, agitato da continua ed aspra guerra fra il bisogno di consolare quell'uomo grande ed infelicissimo, e il rispetto che sentiva per quel dolore più grande di lui. Più d'una volta giunsi fino alla porta, ma non osai aprirla, e me ne tornai indietro, più confuso, più imbarazzato di prima. E chi in simili casi può aver l'orgoglio di giudicare che cosa si debba fare?
      Il quarto giorno però entrai coraggiosamente nella cabina di William. Il mio coraggio era nato ad un tratto da questo mio ragionamento.


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Un giorno a Madera
di Paolo Mantegazza
Casa Editrice Bietti Milano
1925 pagine 147

   





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