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      Se la mia compagnia gli fa male, con un gesto solo, coll'accento di una parola me lo potrà far intendere subito e il suo dolore sarà stato brevissimo. Se invece mi desiderasse, se avesse bisogno di parlare di Emma, con nessuno lo potrebbe fare meglio che con me, ed io gli recherei un conforto ineffabile.
      Con accento che avrebbe potuto farmi perdonar tutto, gli dissi:
      - William, avete voi bisogno di qualche cosa? Voi soffrite molto...
      - Sì, mio caro, soffro assai ed ho bisogno di voi.
      Non posso dirvi quanta gioia provassi in quel momento. Mi sedetti accanto a lui che era coricato, senza cuscini, vestito ancora come era a Madera; tutto rabbuffato, cogli occhi rossi, pallido, sparuto, come se fosse stato malato un mese.
      Gli strinsi ambe le mani, ed egli mi pose un braccio al collo, mi strinse al petto e pianse lungamente. Era l'ultima sconfitta di un animo forte dinanzi ad un dolore assai più forte di lui. Era il destino che piegava la cervice ad uno dei caratteri più gagliardi che io avessi mai conosciuto. L'antica mitologia così piena di filosofica poesia aveva ben avuto ragione, incarnando il destino in un Dio.
      Rimasi tre lunghe ore con William, ed egli mi fece la storia dei suoi dolori. Era uno dei maggiori che possa soffrire l'uomo, ma era di quei dolori sublimi che elevano l'uomo, e che lo fanno superbo di sentirli. Era una storia semplice come tutte le cose grandi; la lotta di una passione con un dovere; io vi sentiva dentro tutta l'umana debolezza e tutta l'umana grandezza; tutto l'uomo, tutta quanta la povera creatura fatta di fango e di una scintilla che i miti di tutte le religioni hanno raffigurato come un semidio, mezzo Dio e mezzo animale, un vero anfibio che vive in cielo.


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Un giorno a Madera
di Paolo Mantegazza
Casa Editrice Bietti Milano
1925 pagine 147

   





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