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      Perché mai ti ho tratto nel vortice della mia fatalità inesorabile, immutabile? Stammi a sentire, mio William, e vedi quale dolore eguagli il mio.
      Non so se nascessi, come tutti gli uomini, piangendo, ma ricordo che la mia fanciullezza fu un solo pianto, che divenni grandicella piangendo e che le lacrime più amare ho versato poi, quando divenni una donna. Ho vissuto in mezzo ad un dolore che, variando sempre, non si stanca mai.
      Giuocava colle mie sorelle maggiori, aveva carissimo sopra tutto un fratello, John, di dodici anni; e quando io non poteva vivere senza di lui, cadeva malato e dopo pochi mesi di letto moriva; e mi ricordo di Jenny, un angelo di sorella, sempre vestita di bianco, con una lacrima negli occhi che non si asciugava mai, e che moriva anch'essa, assottigliandosi adagio adagio come un pezzo di zucchero che si vada sciogliendo nell'acqua. Nel crepuscolo delle mie più antiche memorie mi ricordo di aver detto un giorno a Jenny: - Perché diventi tu ogni giorno più pallida e più sottile?
      E Jenny, con uno scoppio di pianto corse nella sua camera, gridando: - Perché io muoio.
      Nella mia casa non si rideva mai. Quando i fratelli piccini facevano chiasso, veniva nostro padre con un cipiglio così serio da far spavento a un eroe e ci faceva tacere. C'era sempre qualche ammalato a letto, che non si doveva disturbare. Il medico e le medicine andavano e venivano sempre da casa nostra con eterna monotonia. Anche a tavola si taceva sempre e ci eravamo abituati a mangiare senza far stridere la forchetta e il coltello sul nostro piatto, a bere senza sbattere i bicchieri contro le bottiglie.


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Un giorno a Madera
di Paolo Mantegazza
Casa Editrice Bietti Milano
1925 pagine 147

   





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