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      Cominciò quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita che menava prima del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a trovare la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere. L'immagine di colui al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era abbandonato un momento gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri che aveva perduta ogni forza sulla sua fantasia. Tanto è vero che all'amore per signoreggiare un animo, bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi, e le grandi sciagure gli spennacchiano le ali, e gli spezzano i dardi, se ci si permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade realmente nell'animo. Scacciato dal cuore questo nimico, il quale a dir vero non vi aveva preso gran piede, raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare che al fine il castigo era meritato, il pentimento di Geltrude cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo. Pensò ella al perdono che si ottiene con quello, e si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva poteva essere una espiazione, e tutto le parve più leggiero. Si diede quindi tutta ad una divozione la quale in parte era un sentimento intimo e retto dell'animo, in parte un fervore della fantasia. Le tornava allora alla mente il chiostro, e una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la più nobile del monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve un zucchero in paragone dello stato di umiliazione, di prigionia, di disprezzo nel quale si trovava.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





Geltrude