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      » replicò Geltrude. «È vero», disse quella che non aveva mai parlato; «è vero; andiamo nella stanza della Signora». Ognuna delle tre sciagurate sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far qualche cosa, di appigliarsi ad un partito che avesse qualche cosa di opportuno; e nessuna sapeva pensare quello che fosse da farsi: quando una faceva una proposta, le altre vi si arrendevano, come ad una risoluzione. Geltrude si avviò, le altre le tennero dietro, e tutte e tre sedettero nella stanza di Geltrude.
      «Accendete un altro lume», disse questa.
      «No, no», rispose questa volta l'omicida: «ve n'è anche troppo: abbiamo ristoppate le finestre, è vero, ma se qualche educanda vegliasse...»
      «Santissima...!» proruppe con un moto involontario di spavento, Geltrude, e non terminò l'esclamazione, spaventata in un altro modo del nome puro e soave che stava per uscirle dalle labbra.
      «E perché dunque», continuò rimessa alquanto, «perché avete lasciato il lume nell'altra stanza?»
      «Perché...» rispose l'omicida: «non si ha testa da far tutto».
      «Andate a prenderlo».
      «Andate, andate... andiamo insieme».
      Le due serventi partirono, Geltrude le seguì fino alla porta aspettando che tornassero col lume. Lo deposero sur una tavola, lo spensero, e sedettero di nuovo intorno a quello che ardeva da prima. Stavano così tacite, guardandosi furtivamente di tratto in tratto; quando gli sguardi s'incontravano ognuna abbassava gli occhi come se temesse un giudice, e avesse ribrezzo d'un colpevole. Ma l'omicida più agitata, e agitata in modo diverso dalle altre, cercava ad ogni momento di cominciare un discorso, voleva parlare del fatto e del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale, come per tenere afferrate le compagne nella colpa, per essere nulla più che una loro pari.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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