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      L'abbiamo lasciato che s'avviava da Monza a Milano, munito d'una lettera del Padre Cristoforo ad un padre Bonaventura, il mattino del giorno undici di novembre. Al dolore di avere abbandonata la casa, al rancore d'averla abbandonata per la violenza d'un ribaldo, al tribolo di trovarsi tapino sur una strada senza sapere dove si poserebbe il capo, ai patimenti, ai disagi, alle stizze, agli sconcerti della notte passata s'era aggiunto ora un dolore, che esacerbava tutti gli altri; il distacco da Lucia, e un pensiero che diceva: - chi sa quando ci rivedremo -. Andava dunque il povero Fermo tutto sconsolato, pensando a tutti i suoi guai, e in capo a tutti questi pensieri si trovava sempre quel Don Rodrigo che era la prima cagione dei guaj: e Fermo allora lo malediceva con tutti i tiranni, con tutti i dottori, con tutti quelli che avrebbero dovuto proteggere il povero, e lo lasciavano opprimere. I curati non li malediceva, ma ritirava da loro la sua benedizione. Si ricordava poi di Domeneddio, e del Padre Cristoforo, questo gli accadeva ad ogni volta che si abbatteva in una qualche immagine dipinta sur una di quelle cappellette che erano allora frequentissime su le strade: allora Fermo tornava in sč, e si sforzava di perdonare: di modo che, in quel viaggio, egli ebbe ammazzato in cuore Don Rodrigo e risuscitatolo almeno venti volte.
      A misura che Fermo si allontanava dalle colline e si avvicinava alla cittą, l'aspetto del cielo e del paese gli diveniva pił triste e saturnino: di tempo in tempo la via profonda fra due ripe, solcata da rotaje che erano diventate rigagnoli, e tutta fango negli altri spazj era presso che impraticabile: a quei passi un sentiero erto a guisa di scaglioni su la ripa, segnava che altri passeggeri si erano fatta una via nei campi, costeggiando quella che avrebbe dovuto essere la via.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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