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      La città tornò a risuonare dell'antico clamore, ma più interrotto e più fievole; rivide quella turba più rada, ma più ancora miserevole, più sformata, più orrenda per la diminuzione stessa; la quale faceva risovvenire ad ogni pensiero che dei tanti scomparsi nessuno era uscito da quella gramezza che per la morte.
      Questo fu nell'estate: il raccolto venne finalmente a salvare coloro nei quali l'inedia non era degenerata in morbo incurabile; la mortalità si andò a poco a poco scemando; quegli che erano stati sospinti dalle necessità al mendicare ritornarono alle antiche loro occupazioni.
      Si cominciava a respirare, e i mali già consumati nel passato divenivano un soggetto di commemorazione e di trattenimento, grave sì ma non senza qualche dolcezza pel pensiero di averli varcati, non senza qualche fiducia di miglior tempo, parendo agli uomini di avere esauriti in breve spazio i patimenti che avrebbero dovuto diffondersi in una lunga durata, di aver quasi pagata una gran parte di tributo anticipato alla sventura; quando nuovi mali richiamarono sul presente l'attenzione e il terrore di tutti.
      Non la guerra propriamente detta, ma un passaggio di truppe, più funesto agli abitanti che nessuna guerra più accanita, desolò una parte del Milanese; e condusse la peste dalla quale nessun angolo di quel paese fu salvo.
      Ci conviene ora accennare brevemente le origini di tanta rovina. Vincenzo I Gonzaga duca di Mantova era morto nel 1612, lasciando tre figli. Il primo Francesco morì nello stesso anno, e non rimase di lui che una figlia per nome Maria; Ferdinando che dopo di lui tenne lo stato morì senza prole legittima nel 1626; Vincenzo II l'ultimo dei fratelli gli succedette in età di 32 anni già consumato dagli stravizzj, senza speranza di prole, e manifestamente vicino al sepolcro.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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