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      Tutte queste passioni crescevano nell'animo di Fermo di pari passo che il vigore nelle sue membra; e quando queste furono ben riconfortate, egli con la risolutezza d'un giovane convalescente, disse in se stesso: - andrò, e vedrò io come stanno le cose -. Il pericolo della cattura gli dava poca molestia; da quello che si passava in Bergamo, egli vedeva che la peste assorbiva o affogava tutte le sollecitudini, ch'ella era come un'obblivione o un giubileo generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati avevano ben poca forza e poca voglia d'agire contra i delitti della giornata, e tanto meno contra reati ormai rancidi; e sapeva per la voce pubblica che in Milano il rilasciamento d'ogni disciplina buona e cattiva era ancor più grande. Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome, di procedere con cautela, e di scoprir paese, e prender voce nel suo paesetto natale, prima che avventurarsi in Milano. Con questo disegno, egli lasciò in deposito presso un buon prete (quel suo fidato parente era morto di peste) gran parte degli scudi che gli rimanevano, ne prese pochetti con sè, si tolse un pajo di pani, un po' di companatico e un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo sul finire di Luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al lazzeretto.
      I pochi che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra popolazione, come una razza privilegiata. Una grandissima parte della gente languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano contratto il male ne vivevano in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva col tocco esser cagione di morte, così di tutto si guardavano; i passi erano misurati e sospettosi, i movimenti ritrosi, irresoluti, fretta ed esitazione in un tempo, un allarme incessante, una disposizione a fuggire; e con tutto questo il pensiero sempre vivo che forse tante precauzioni erano inutili, forse il male era già fatto.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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