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      Io non intendo tutti questi suoi discorsi; ma poi che ella non ha altri consigli da darmi, si contenti ch'io faccia a modo mio».
      «No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete in imbroglio me e voi. Abbiate compassione d'un pover uomo che ha bisogno di quiete; e sarebbe giusto finalmente che la godesse. Quello che ho patito io, vedete, non lo ha patito nessuno. Ne ho passate d'ogni sorte: spaventi, crepacuori, fatiche: è venuta la carestia, e m'è toccato di veder persone morirmi di fame su gli occhi. Ho dovuto fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho trovato cuori duri come selci; e i soldati m'hanno sperperato ogni cosa. E sono stato... e ho dovuto... e basta... sono stato ricoverato da un degno signore... basta so io quello che ho patito. E poi la peste! ho dovuto assistere agli appestati... e... ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho presa anch'io, e son qui vittima della mia carità: d'allora in poi non son più quello. Perpetua è morta, mi ha abbandonato in questi guaj; e mi tocca servirmi da me povero vecchio e malandato, come sono. Ecco che appena cominciava a star bene, e voi venite per darmi nuovi travagli...»
      «Signor curato», disse Fermo, «io le desidero ogni bene; e del travaglio ella ne può bene aver dato a me, ma non io a lei, in fede mia. La spia ella non me la vorrà fare; del resto io mi rimetto nelle mani di Dio. Attenda a guarir bene, signor curato».
      «Sentite, sentite», continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta una riverenza di risoluto congedo, e camminava verso la casetta di Lucia.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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