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      Era uno di quei rimedii immoderati e inefficaci di cui principalmente in quel tempo si faceva scialacquo: era un dispotismo che non toglieva l'anarchia. Dopo avere inutilmente guardato su quella piazza, se potesse scorgere alcuno a cui chiedere conto della via dove abitavano i padroni di Lucia, il nostro pellegrino si volse a mano manca, e costeggiando il convento di San Marco, giunse al Ponte al quale Ludovico il Moro diede il nome di Beatrice sua moglie; e per quello entrò nella città propriamente detta. Quale città! Non istropiccìo di passeggeri, non romore di carrozze, non grida di venditori, né stridore di officine, ma in quella vece gemiti, lamenti, urli che uscivano dalle case, strepito di carri funebri, bestemmie, minacce, o quel che dava un suono ancor più atroce, il baccano festoso, e la ilarità infernale dei monatti. Lo spazzo sparso e talvolta ingombro di mobili, di coltrici, di vesti, di strame appestato, di cenci, di fasce saniose e sanguinate; e a quando a quando di cadaveri abbandonati! Radi per le vie si vedevano camminare i cittadini che qualche necessità faceva uscire di casa: una parte era fuggita; un'altra parte, al numero circa di quattordici mila, abitava, o moriva nel lazzeretto; un'altra languiva nelle case; e forse cento venti mila erano i morti a quell'ora; prima della peste la popolazione della città era stimata dugento mila persone; numero al quale non risalì mai più dopo quel disastro. Andavano quei pochi, scompagnati, in silenzio, con la faccia lurida, coi capegli lunghi ed incolti, con le barbe arruffate, perché da quando nella casa dell'infelice barbiere Giangiacomo Mora s'era creduto scoprire la fucina principale delle unzioni, ognuno fuggiva i barbieri divenuti tutti sospetti.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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