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      «Viva la moria, e muoja la marmaglia», sclamò un altro, e con questo bel brindisi, si pose il fiasco a bocca, e tenendolo con ambe le mani fra i trabalzi del carro, ne tracannò un lungo sorso, indi porse il fiasco a Fermo, dicendogli: «bevi alla nostra salute».
      «Ve l'auguro di buon cuore», disse Fermo; «ma non ho sete; non potrei bere in questo momento».
      «Tu hai avuto una bella paura, a quel che pare», disse quel monatto: «m'hai cera d'un pover'uomo; altri visi voglion essere a far l'untore».
      «Ognuno s'ingegna come può» disse un altro.
      «Dammi quel fiasco», insorse un terzo; «voglio vuotarlo io, che l'ho conquistato nella cantina di quel vecchio avaro lì...» e così dicendo prese il fiasco dalle mani di quell'altro; e prima di bere, si volse a Fermo, gli affissò gli occhi in faccia con un'aria di pietà sprezzante, e gli disse: «Convien credere che il diavolo col quale tu hai fatto il patto, sia ben giovane, ben dappoco, poiché se non eravamo noi a salvarti, egli ti dava un bell'ajuto». E ridendo del suo bel tratto, levò il fiasco, e se lo appiccò alle labbra. Lo vuotò, e poscia tenendolo con la destra pel collo, lo mosse rapidamente in giro al di sopra del capo, quindi lo gittò lontano a fracassarsi su le pietre del pavimento, gridando: «viva la moria». Quindi intonò di nuovo la canzone che l'accidente di Fermo aveva interrotta; e tosto a quella voce si accompagnarono tutte le altre di quel turpe coro. La musica infernale mista al tintinnio dei campanelli, e allo strepito del carro rimbombava orrendamente pel vôto silenzioso delle vie, e stringeva amaramente il cuore dei pochi rinchiusi nelle case dinanzi alle quali il carro trascorreva.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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