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      Don Abbondio se ne sbrigò come poté, in quella confusione di mente; e accostatosi poi all'aiutante, gli disse: – mi dia almeno una bestia quieta; perché, dico la verità, sono un povero cavalcatore.
      – Si figuri, – rispose l'aiutante, con un mezzo sogghigno: – è la mula del segretario, che è un letterato.
      – Basta... – replicò don Abbondio, e continuò pensando: "il cielo me la mandi buona".
      Il signore s'era incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato all'uscio, s'accorse di don Abbondio, ch'era rimasto indietro. Si fermò ad aspettarlo; e quando questo arrivò frettoloso, in aria di chieder perdono, l'inchinò, e lo fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto lo stomaco al povero tribolato. Ma appena messo piede nel cortiletto, vide un'altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l'innominato andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina, poi per la cigna con l'altra, e, con un movimento spedito, come se facesse l'esercizio, mettersela ad armacollo.
      Ohi! ohi! ohi! – pensò don Abbondio: – cosa vuol farne di quell'ordigno, costui? Bel cilizio, bella disciplina da convertito! E se gli salta qualche grillo? Oh che spedizione! oh che spedizione!
      Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri passavano per la testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto per rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio stava attento a non far nessun atto che significasse chiaramente: non mi fido di vossignoria.


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I promessi sposi
di Alessandro Manzoni
pagine 798

   





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