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      Raccontò anche lui all'amico le sue vicende, e n'ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell'esercito, della peste, d'untori, di prodigi. – Son cose brutte, – disse l'amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; – cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l'allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo.
      Allo spuntar del giorno, eran tutt'e due in cucina; Renzo in arnese da viaggio, con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel taschino de' calzoni: il fagottino, per andar più lesto, lo lasciò in deposito presso all'ospite. – Se la mi va bene, – gli disse, – se la trovo in vita, se... basta... ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e poi, e poi... Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia... allora, non so quel che farò, non so dov'anderò: certo, da queste parti non mi vedete più –. E così parlando, ritto sulla soglia dell'uscio, con la testa per aria, guardava con un misto di tenerezza e d'accoramento, l'aurora del suo paese che non aveva più veduta da tanto tempo. L'amico gli disse, come s'usa, di sperar bene; volle che prendesse con sé qualcosa da mangiare; l'accompagnò per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augùri.
      Renzo, s'incamminò con la sua pace, bastandogli d'arrivar vicino a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buon'ora, e cominciar subito la sua ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo da' suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie.


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I promessi sposi
di Alessandro Manzoni
pagine 798

   





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