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      Al ritorno un infermiere dell'ospedale dei feriti mi consegnò un biglietto di mia moglie così concepito: "Il Generale s'allontanò da Palermo; l'ambulanza ricevette l'avviso di seguirlo".
      Volo agitatissimo all'ospedale di San Massimo, e vi trovo Ripari, capo medico, mezzo costernato e mezzo furente, il quale dava ordini, contr'ordini e colpi di frustino per accelerare l'allestimento dell'ambulanza. Gli era un andirivieni di medici, di chirurgi, d'infermieri, di farmacisti e di ammalati colle ferite non ancora rimarginate, supplicanti di ritornare alle proprie compagnie. Mia moglie, nell'ultima stanza intesa ad infarcire di filacce, di bende e di agrumi i sacconi dei letti, mi fece: - Sei pronto a partire dimani? Noi partiamo dimani.
      Ed io a lei sorridendo: - Non ti affannare, Garibaldi fa colazione a bordo di un vascello inglese.
      - Molto probabile! mentre i nostri si battono a Meri!
      - Da quando in qua?
      - Fruscianti capitò qui cogli ordini. Il Generale s'imbarcò con gli aiutanti, le guide, i carabinieri genovesi e la brigata Corte arrivata testè da Gaeta.
      - Dunque ieri m'ingannò! Impossibile! Ritornai, non so se sdegnato o trasognato, nella prima stanza. Ivi rividi Ripari ignudo sino alla cintola e supino sul pagliericcio. La settenne galera di Pagliano lo disavvezzò dalle materasse, dalle lenzuola e dalla biancheria. Data, un minuto prima, al bucato l'unica camicia di lana, non avanzavagli che l'uniforme per cuoprirsi. Il suo baule non contenne mai filo di cotone o di lino, né mai odorò di lavanda.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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