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      In quanto al successo, Garibaldi riposava con animo tranquillo sugli uomini onde formò il piccolo corpo di spedizione.
      Se non che il comandante stavasi pago di campeggiare in Calabria, né gran che si doleva del forte non preso, e forse non ci aveva mai pensato molto seriamente. Almeno i nostri soldati così credevano, e ne mormoravano, e rammaricavansi d'obbedire ad uomo che non conobbero in campo, e tanto più acerbamente per gl'indugi frapposti al pronto operare, sembrando loro tardi di segnalarsi agli occhi di Garibaldi con qualche gesto degno del proprio passato. Desideravano che il comando venisse assunto dal maggiore Missori, capo delle guide a cavallo, valoroso e amabile uffiziale. Taluno nel Consiglio dei Dodici favellò in questa sentenza, e ne nacque disputa penosa e infiammata. Gli uffiziali calabresi parteggiavano pel comandante come paesano e noto in quelle provincie. L'ístesso Plutino ne li secondava, perché, consigliere e difensore degli atti prudenti e d'una cauta strategia, antivedeva in che gravi repentagli sarebbe stato tratto dall'audacia del maggiore.
      Si statuì alfine, sulla mia proposta, che il colonnello, serbando il comando ideale, provvederebbe all'agitazione politica da promuoversi nelle Calabrie, e che il comando reale l'avrebbe il maggiore. Il colonnello piegò a cosiffatto divisamento, avvegnaché una lettera di Garibaldi, consegnata durante la seduta, ingiungevagli di porsi d'accordo col maggiore.
      Subitamente il maggiore, un calabrese ed io, cavalcando le mule dei viveri, calammo a mare per esplorare le forze e le intenzioni del nemico.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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