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      Sul monte parallelo e separato dal nostro per una stretta e profondissima gola accampava Garibaldi con quattromila uomini. Un grido prolungato di gioia e un agitar di berrette salutarono la nostra venuta. Era la sera del 20 agosto. Giù a mare il Franklin, che trasportò Garibaldi, giaceva arenato, il Torino, fulminato da due navi borboniche, divampava, ed una terza nave mandava a noi un benvenuto di granate e di bombe. Il mattino del 22 eccoci sotto Reggio. Garibaldi, impegnato già nell'assalto, aveva guadagnata un'altura che domina la città. Quivi lo rivedemmo a mezzogiorno. Ci accolse amorosamente e ci beò col suo sorriso.
      Frattanto il nemico da un colle più elevato ci tempestava con un micidiale fuoco di fila. Garibaldi ne lo sloggiò alla baionetta. Ma alle spalle il forte, nel cuore della città, ci disturbava. Garibaldi ingiunse al maggiore di scegliere una trentina dei nostri cacciatori, di accostarsi al forte cautamente e tirare ai cannonieri. Affacciato a un poggetto, soggiunse ai trenta che discendevano: - Spargetevi per ischivare la mitraglia. Non voglio un solo ferito. - Il maggiore, inteso ad altre cure, ne affidò a me il comando. Io li condussi a mezzo tiro di carabina. Eglino uccisero buona parte dei cannonieri. Noi avemmo un solo ferito. Destri e coraggiosi, in due ore di fuoco incessante costrinsero il forte a inalberare la bandiera bianca e ad arrendersi.
      In quel giorno furono promossi i topi che aiutarono il leone. Io diventai luogotenente.
      CAP. III
     
      VENI, VIDI, VICI


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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