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      Garibaldi poscia andò a collocarsi solo e ritto, siccome statua sovra piedestallo, sulla calva cima del monte. Visibile a tutti gli sguardi, vedevalo anche il nemico e salutavalo con una pioggia di granate che cadevangli intorno o scoppiavano in alto. Cinquemila camicie rosse in una serie di curve parallele gli fiammeggiavano ai piedi, formidabili e pittoresche. Alla base agitavansi irosi e impotenti i nemici ch'ei sbaragliò tante volte, e di prospetto esultava bellissima e maestosa la Sicilia ch'ei liberò. Era l'apoteosi dell'eroe.
      Conferito il comando di ciascuna linea ad un suo aiutante di campo, ordinò a me di unirmi al marchese. Ambedue, passeggiando da un capo all'altro della nostra schiera, si vigilava affinché i soldati non perdessero l'imposta pazienza.
      Il nostro silenzio non sembrava vero al nemico, il quale raddoppiava di vigore e di precisione ne' suoi colpi invendicati. Ognuno di parte nostra sedeva sul pendio col fucile per terra, aspettandosi d'un punto all'altro di passare a miglior vita da quella comoda giacitura. Né tutti più tardi si rialzarono. Udivo un sordo fremito nelle file e notavo la mal celata ansia di placare le ombre dei compagni spenti, sommergendo i regi nello stretto. Pure, durante tre ore consecutive di quella gragnuola di palle, non un sola schioppo si sparò dal nostro campo, benché l'avanguardia fossesi accostata ad un tiro di pistola all'opposta avanguardia.
      A me quella inflitta immobilità e quell'astensione dalle offese apparivano enigmi indecifrabili; ma, rimembrando il granchio del giorno prima, non dubitava ne dovesse emergere un risultato solenne quanto imprevedibile.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





Sicilia