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      Nel distaccarmi da esso avevo un groppo alla gola e gli dissi addio con voce commossa.
      Pochi giorni appresso lo incontrai in altro campo sfortunato, ov'ei ripassò sotto le medesime forche caudine. Poscia riseppi che cadde trafitto nella battaglia del Volturno e che venne sotterrato con calce in una fossa promiscua fra mille cadaveri. E l'indistinta sepoltura contese alla sua reliquia la dolcezza del sognato compianto.
      Da San Giovanni principiò la corsa trionfale di Garibaldi fino a Napoli. Le lagrime, le ovazioni, i fiori, i baci, le benedizioni di un popolo immaginoso, che credevasi emancipato da un fiat sovrannaturale, piovvero lungo trecento miglia sul capo del vincitore. Entro un modesto calesse, lo precedetti a caso con mia moglie nell'ingresso a Palmi. Le vie, le piazze, le logge, i poggiuoli, le terrazze, riboccavano di popolo. Un grido inarticolato, continuo, frenetico, ci salutò. Le donne, massime, curvandosi fuori delle finestre sin quasi a precipitarne, ci protendevano le braccia, con occhi, con visi, con detti deliranti. Hanno pigliato me e lei per Garibaldi e sua figlia. E quando più tardi capitò il vero Garibaldi, esausti i petti, rauche le gole, esalato il profumo dell'entusiasmo, s'ebbe amorose, ma non forsennate accoglienze. E qualche altra fiata mi accadde d'essere scambiato per lui. Il secondo giorno dell'entrata in Napoli, alla festa uffiziale nella chiesa di Piedigrotta, Garibaldi, inginocchiato sovra un cuscino di velluto, riceveva, dall'arcivescovo in pontificale la palma che solevasi d'antico offerire l'8 settembre al re delle Sicilie.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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