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      - Lasciami andare; tentiamo. Terrò in ciarle il generale nemico e Garibaldi potrà sopraggiungere.
      Stette Nullo sospeso; poi acconsentì. Per rendermi autorevole mi diede la sua berretta di maggiore, il luogotenente Zasio per compagno e una guida. Spiccato un ramoscello di salice e appiccicatovi a foggia di pennoncello la mia pezzuola, con codesto segno parlamentare, precedevami la guida. Un cacciatore con carabina spianata ci cantò l'alto chi va là? E la guida:
      - Oratore di Garibaldi!
      Introdotti nel campo, presentossi un capitano, e scambiati i saluti d'uso, gli feci con gravità:
      - Il dittatore, generale Garibaldi, manda me, suo aiutante di campo, a conferire col vostro comandante supremo.
      - Il generale Ghio?
      Io ignoravo se Ghio od altri fosse il comandante, ma risposi come chi sa:
      - Appunto.
      Forse per ostentazione delle loro forze non ci bendarono gli occhi.
      In tutta la lunghezza del villaggio, sui due lati della contrada scintillavano a intervalli i fasci d'armi.
      I soldati altri addormentati, altri seduti; quelli in piedi scuoiavano e rosolavano agnelle e pecore. Stava adunata sulla piazza la cavalleria, e l'artiglieria in fondo al villaggio. Novemila fanti, cinquecento lancieri, cencinquanta gendarmi e undici cannoni. L'ingombro dei carriaggi, delle ambulanze, dei muli rendeva malagevole la nostra traversata, benché i soldati ci facessero ala con segni di rispetto e assai più di sbalordimento, perché veruno di loro pareva potesse spiegarsi come noi, creduti lontanissimi, fossimo già alle loro calcagna.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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