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      Propagatasene elettricamente la notizia, un nugolo d'uffiziali staccatosi dalle compagnie gli fece ressa intorno, anelando di vederlo, di conoscerlo, d'ammirarlo. I fanti buttarono via i fucili, i lancieri abbandonarono i cavalli, gli artiglieri i cannoni.
      - A casa, a casa, urlarono tumultuariamente. E in meno di un'ora quelle armi e quel campo furono nostri. Garibaldi da Soveria andò a Napoli coi cavalli di posta.
      CAP. IV
     
      DITTATURA DI TRE GIORNI
     
      Era il 7 settembre del 1860. Il conflitto delle diverse violente ineffabili emozioni provate in quel giorno del nostro ingresso trionfale in Napoli, immezzo a trecentomila persone che piangevano di gioia, che deliravano d'entusiasmo, all'improvviso e incruento passaggio dalla schiavitù alla libertà, e alla vista della figura raggiante e simpatica di Garibaldi emancipatore, aveva esauste le mie forze. Sentii, all'avvicinarsi della notte, che il mio cervello non reggeva oggímai ad alcuna reazione, quando al largo del palazzo d'Angri, ove Garibaldi prese stanza, e in via Toledo, l'onda popolare riagitandosi come in tempesta, migliaia di carrozzelle montate confusamente da donne, frati, soldati, cittadini, correndo su e giù fra gli ululati di Viva l'Italia una, un immenso carro in forma di bastimento, che tiravano sedici bovini fantasticamente bardati, trasse con grande strepito davanti al palazzo, pieno di cantori e di suonatori i quali eseguivano per la prima volta l'Inno indi famoso. Epperò appena finita la guardia, e il generale si coricò, consegnato il mio indirizzo nel caso d'una chiamata, seguii un napolitano gentile all'albergo suggerito da lui e mi trovai installato con mia moglie in un quartiere confortevole, donde prospettavasi il Largo delle Pigne.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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