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      Agli spessi volgimenti aggiungevasi il forte pendio che ne costringeva a rallentare il corso, e ci offrivano al nemico più continuo e più agevole obbietto. Il mio cavallo, sempre irrequieto e indocile nei combattimenti, quella notte, forse penetrato della gravità del caso, aveva messo giudizio e filava diritto come una freccia. Intanto si andava avanti. Pietro impugnava uno spadone, io la rivoltella per farci largo nella possibilità d'un assalto sulla via; e studioso dell'equilibrio mi occupavo nel tempo stesso a tirare or da un lato ora dall'altro il panno che m'ero già tolto di dosso e avevo posato sul collo del cavallo: la cura della umidità del di poi e della febbre probabile, mi distraeva dal fuoco attuale e dalla morte certa. I cafoni, irritati di non vedermi cadere malgrado i cento e cento colpi, raddoppiarono di lena coll'appendice delle feroci imprecazioni, degli ululi furibondi, e ne intesi anche di donne. Era un tumulto. Sulla fine della borgata la strada sviluppavasi in emiciclo nella congiunzione di due monti, ove le offese nemiche allentarono. In capo ad esso un cavallo ucciso ingombrava il passo: quel di Pietro trascorse senza difficoltà, ma il mio, affetto dal ribrezzo del confratello estinto, rinculava, dava volta, impennavasi. Il nemico, profittando dell'intoppo, mi bersagliò con tiri convergenti e gettossi sulla strada per afferrarmi. Finalmente, più del ribrezzo, potendo sull'animo della sconsigliata bestia la logica degli speroni, si risolse di saltare il morto e di conservare due vivi.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





Pietro