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      O volete mostrarne come a dire la trama (che è ufficio proprio e delicato di chi insegna), e vi convien farlo in prosa, con una versione il più possibile analitica e letterale; o volete cercare che un pubblico, colto s'intende, ma mondano, ne gusti alcun che, e non del contenuto soltanto ma un poco anche della forma e della musica, e vi bisogna licenziarvi a una certa larghezza, tentar di raggiungere un effetto analogo anche con mezzi un po' diversi, come l'indole della lingua, le inclinazioni stesse della razza e le attitudini dell'orecchio dimandino. Non dico castigare lo Shakespeare, Dio liberi, come ha preteso una Dacier, e nemmanco togliersi due distici d'Ovidio e barattarli con dieci ottave, siano pure di gitto come quelle del buon Anguillara; ma una parafrasi a tempo, un epiteto, magari un paragone di più, credo, sull'esempio del Caro, che non siano se non peccati veniali.»
      Di questi, e di qualche altro in verità più che veniale, l'assolsero giudici autorevoli, i quali non disconobbero le difficoltà di tale impresa; e con Gaetano Negri conclusero, che il Massarani «ha saputo voltare in italiano uno dei testi più difficili che un traduttore abbia mai preso in mano» (Perseveranza, anno XXXVIII, n. 13804).
      A tradurre un poemetto di Eugenio Benson, fu indotto da un umile ma devoto amico, al quale, per bontà sua, egli andava chiedendo, nei giorni più desolati della inferma vecchiezza, qualche soggetto che potesse allettarlo ancora, e col lavoro intellettuale distrarlo dalla presente tristezza.


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L'odissea della donna
di Tullo Massarani
Editore Forzani Roma
1907 pagine 356

   





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