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      I principî di rivoluzione che predicavamo erano accolti; la necessità d'operare a seconda non era abbastanza sentita. Bisognava moralizzare il Partito: provargli col fatto che quando uomini d'una fede, e che si stanno mallevadori della salute o della rovina altrui, hanno promesso di fare, devono fare e non lasciarsi sviare da nuovi ostacoli o da cagioni individuali, comunque nobili e generose. Noi pure, capi al di fuori, avevamo promesso, e toccava a noi, insegnatori, di mantener le promesse. Avevamo d'altra parte, se ci veniva fatto d'operare sollecitamente, probabilità di successo. I più tra i nostri elementi non erano stati scoperti: sgominati, incerti e senza unità di capi o disegno, duravano pure potenti di numero, e una ardita iniziativa da parte nostra li avrebbe senz'altro raggranellati all'azione. Il fremito suscitato dalle crudeltà delle quali accennai era universale, e trapiantando rapidamente l'iniziativa dall'interno in noi, eravamo quasi certi di dar moto a una riscossa in Italia. Le nostre speranze erano talmente fondate che - per accennar qui di volo un tentativo intorno al quale non occorre spendere lunghe parole - il solo annunzio della nostra decisione bastò a raccogliere gli elementi dispersi di Genova e risuscitare il disegno. Sul finire dell'anno, un moto era nuovamente preparato in quella città, e non fallì se non per l'inesperienza dei capi, buoni, ma giovanissimi e ignoti ai più. Giuseppe Garibaldi fu parte di quel secondo tentativo e si salvò colla fuga(34).


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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