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      Perciò lo fece uscir di città, lo avviò a una casa di campagna fuor di Torino, dicendogli che non si poteva tentare quella domenica, ma che se le cose si vedessero in quiete, lo richiamerebbero per un'altra delle successive.
      Una o due domeniche dopo, mandarono per lui: non lo trovarono più. Era partito ed io lo rividi in Isvizzera.
      Rimanemmo legati: ma si sviluppò in lui un'indole più che orgogliosa, vana, una tendenza d'egoismo, uno scetticismo insanabile, uno sprezzo d'ogni fede politica, fuorchè l'unica dell'Indipendenza Italiana. Lavorò meco, nondimeno: fu membro del nostro Comitato Centrale e firmò, come Segretario, un appello stampato agli Svizzeri contro la tratta de' soldati sgherri che facevano. Poi s'astenne e si diede a scrivere articoli di Riviste e libri. Disse e misdisse degli Italiani, degli amici, e di me. Prima del 1848 si riaccostò e fece parte d'un nucleo che s'ordinò sotto nome nostro. Venne il 1848. Io partiva; mi chiese di partire con me. In Milano si separò, dicendomi ch'egli era uomo di fatti, e voleva recarsi al campo. Invece d'andare al campo andò in Parma, dove congregato il popolo in piazza, cominciò a predicare quella malaugurata fusione che fu la rovina del moto. Diventò segretario d'una Società Federativa presieduta da Gioberti, del quale egli aveva scritto plagas nei suoi articoli inglesi sulle cose d'Italia; sottoscrisse circolari destinate a magnificare la monarchia piemontese; e fu scelto dal Governo a non so quale piccola ambasciata in Germania.


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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