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      Ma alle molte evidenti cagioni che ci comandavano di combattere, un'altra se ne aggiungeva per me intimamente connessa col fine di tutta la mia vita, la fondazione dell'unità nazionale. In Roma era il centro naturale di quell'unità; e verso quel centro bisognava attirare gli sguardi e la riverenza degli Italiani. Or gli Italiani avevano quasi perduto la religione di Roma: cominciavano a dirla tomba, e parea. Sede d'una forma di credenza omai spenta e sorretta dall'ipocrisia e dalla persecuzione, abitata da una borghesia vivente in parte sulle pompe del culto e sulle corruttele dell'alto clero e da un popolo virile e nobilmente altero, ma forzatamente ignorante e apparentemente devoto al papa, Roma era guardata con avversione dagli uni, con indifferenza sprezzante dagli altri. Da pochi fatti individuali infuori, nulla rivelava in essa quel fermento di libertà che agitava ogni tanto le Romagne e le Marche. Bisognava redimerla e ricollocarla in alto perchè gli Italiani si riavvezzassero a guardare in essa siccome in tempio della patria comune: bisognava che tutti intendessero la potenza d'immortalità fremente sotto le rovine di due epoche mondiali. E io sentiva quella potenza, quel palpito della immensa eterna vita di Roma al di là della superficie artificiale che, a guisa di lenzuolo di morte, preti e cortigiani avevano steso sulla grande dormiente. Io avea fede in essa. Ricordo che quando si trattava di decidere se dovessimo difenderci o no, i capi della guardia nazionale, convocati e interrogati da me, dichiararono, deplorando, pressochè tutti che la guardia non avrebbe in alcun caso ajutato la difesa.


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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