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      I fucili di deposito nei magazzeni erano nostri, in un batter d'occhio; i due armajuoli, che di tempo in tempo li ripulivano e riattavano, erano nostri, avevano le chiavi dei magazzini e dovevano in quel giorno, sotto un pretesto qualunque, tenerli aperti perchè l'operazione non incontrasse il menomo indugio; e attennero la promessa. Il Capo stesso, sprezzatore d'ogni rischio, s'introdusse, un'ora prima della prestabilita all'insorgere, nella piazza interna del Castello e li vide al lavoro. Riescito il colpo, un colpo di cannone e la bandiera tricolore inalzata dovevano essere segnale agli insorti d'accorrere ad armarsi.
      Mentre si sarebbero compite quelle sorprese, duecento giovani dovevano correre a due a tre le strade della città e cogliere soldati e ufficiali che, avvertiti dal romore levato, avrebbero, uscendo dalle taverne, dai caffè, dalle abitazioni, tentato raggiungere isolati i varii punti di concentramento. Era un Vespro; e gli scribacchiatori moderati ci accusarono d'avere preparato armi non generose. Ma chi, da Dante a noi, non aveva registrato fra le glorie italiane il Vespro di Sicilia? Chi, fra gli ipocriti ai quali alludo, non avrebbe acclamato al tentativo dei popolani lombardi, se coronato dalla vittoria? A emancipare la patria dalla tirannide dello straniero ogni arme - se lunga o breve non monta - è santa; e se l'arbitrio sospettoso d'uomini, che a proteggere l'usurpazione di terre non loro si giovano dell'arme infame del patibolo non lascia ai cittadini altro ferro che quello delle loro croci, benedetto sia chi, a salvare la libertà dei corpi e dell'anime, svelle e aguzza ad offesa quel ferro!


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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