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      Ma li trovai mutati, scettici, riluttanti a ogni pensiero d'azione. Cominciarono per dichiarare impossibile l'esistenza d'una vasta associazione di popolani; poi, quand'ebbero prove irrecusabili, si ricacciarono sulla impossibilità del segreto, e confutato il timore della rivelazione di quella parte del disegno che riguardava la scelta dell'ora, la paga ai soldati e gli indizî che escirebbero dalle loro mosse, cominciarono ad argomentare sulla poca disposizione delle provincie lombarde a seguire: temevano i pericoli del moto, la possibilità della disfatta e, credo, egualmente le conseguenze d'una vittoria preparata esclusivamente dal popolo. L'anima loro, impicciolita tra la vanità pedantesca della mezza-scienza, il materialismo delle scuole francesi, che allora seguivano, e il meschino freddo sussiego di letterati borghesi, s'arretrava sospettosa davanti a quel ridestarsi di popolo, che avrebbe dovuto inorgoglirli di gioja italiana.
      Così titubavano paurosi, svogliati, inerti sino alla fine: non diedero un uomo, nè una moneta, nè un'arme: avevano non so quanti fucili e li rifiutarono, dicendo che se ne gioverebbero per la seconda giornata. Il Venosta accettò d'entrare, come loro delegato, in una direzione formata di Bianchi Piolti, d'un Fronti, del capo militare e di lui; ma non intervenne se non due volte ai convegni, ascoltando, nè mai proponendo cosa che potesse tornar utile al moto; poi si dileguò. Finalmente, richiesti, spronati, rimproverati, dichiararono che consulterebbero, prima di decidersi a cooperare, una competente autorità militare.


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Scritti
Politica ed Economia
di Giuseppe Mazzini
Editore Sonzogno Milano
pagine 1484

   





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