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      Ciò che guadagnarono i patrizi non andò perduto per il comune, ma solo per il potere del magistrato; il comune, a dir vero, non guadagnò sulle prime che pochi, limitatissimi diritti, di gran lunga meno pratici e manifesti dei diritti acquistati dalla nobiltà e dei quali forse uno su mille avrà saputo sentire il pregio; ma in essi era la guarentigia dell'avvenire. Fino allora i domiciliati erano nulla politicamente, gli originari cittadini tutto; entrati i domiciliati nella società comunale, gli originari si videro vinti; giacchè per quanto mancasse ancora ai primi di ottenere la piena eguaglianza civile, è però sempre la prima breccia più che l'occupazione dell'ultimo baluardo che decide della resa della fortezza,
      Perciò, a buon diritto, il comune romano datava la sua esistenza politica dal consolato.
      Benchè, dunque, la rivoluzione repubblicana, malgrado la immediata prevalenza dei patrizi, possa con ragione chiamarsi una vittoria dei domiciliati ossia della plebe, essa anche sotto quest'ultimo aspetto non aveva però assolutamente il carattere, che noi oggi siamo abituati a definire democratico.
      Senza dubbio, dopo la cacciata dei re venne a sedere in senato un numero maggiore di plebei che non prima; ma il puro merito personale, senza l'appoggio della nascita e delle ricchezze, rendeva più facile l'ammissione degli uomini nuovi sotto i re, che non sotto i patrizi.
      Era poi cosa naturale che il regnante ceto signorile, dovendo pur ammettere i plebei in senato, vi chiamasse a sedere non già gli uomini più ragguardevoli, ma di preferenza i capi delle più ricche e distinte famiglie plebee, le quali naturalmente avranno posto ogni studio per conservarsi gelosamente una tale distinzione.


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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 376