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      3. Finanze comunali. Ma prima di tutto e nel modo più sensibile si chiarì il cambiato indirizzo dell'amministrazione finanziaria dei beni comunali, che mirava quasi apertamente all'annientamento materiale e morale delle classi medie. L'uso del pascolo comunale, e in generale dei beni dello stato, era di sua natura un privilegio dei cittadini; senza violazione del diritto formale non si poteva quindi concedere assolutamente ad un plebeo l'uso del pascolo comunale. Ma siccome, astrazione fatta del passaggio dei beni comunali in mano dei privati sia per vendite sia per assegnazioni, la legge romana non riconosceva nei singoli cittadini un vero e incontestabile diritto di usufrutto sui menzionati beni, così dipendeva esclusivamente dall'arbitrio del re, fin tanto che i beni comunali rimanevano tali, di concederne o limitarne l'uso e non v'ha alcun dubbio, che esso si sia spesso valso di questa sua facoltà, o per lo meno della sua autorità in favore di plebei.
      Senonchè colla proclamazione della repubblica venne ad acquistare nuova forza il principio che l'uso del pascolo comunale spettasse ai soli cittadini di buon diritto, ch'è quanto dire ai patrizi; e sebbene il senato facesse poi, come prima facevano i re, delle eccezioni in favore delle cospicue case plebee ammesse nella sua consociazione, erano però esclusi da simile beneficio i piccoli proprietari plebei e i giornalieri, i quali sentivano appunto più urgentemente il bisogno del pascolo.
      Occorre notare che, fino ai tempi di cui discorriamo, si era sempre pagata una imposta pei capi di bestiame che si mandavano sul pascolo comunale, imposta abbastanza modica per ravvisare un privilegio nel diritto di far pascere il bestiame su quei fondi, ma che malgrado la sua modicità procacciava alla cassa del comune un'entrata abbastanza considerevole.


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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 376

   





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