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      E non sarà inopportuno ricordare qui, a proposito di quanto appunto notammo quando si trattò dell'essere o non essere di nazioni dotate di grandi e belle qualità e di antica fama, come Platone, il quale venne a Taranto circa sessant'anni prima di questa epoca, trovasse, secondo ch'egli narra, nell'occasione della festa di Dionisio, tutta la città ubbriaca, e come la farsa parodista, la così detta «Tragedia burlesca» fosse stata inventata in Taranto appunto all'epoca della grande guerra sannitica. Ad aggravare questa abitudine di vita scioperata e di poesia buffonesca, che pare essere stata propria dei colti ed eleganti Tarentini, si aggiungeva la tentennante, petulante e cieca politica dei demagoghi di Taranto, i quali si mostravano attivi là dove nulla c'era da fare e si eclissavano quando li chiamava il più evidente loro interesse.
      Allorchè, dopo la catastrofe caudina, i Romani e i Sanniti si trovavano alle prese nell'Apulia, i Tarentini inviarono ambasciatori che intimarono ad ambe le parti di cessare dalle ostilità (434 = 320).
      Questa intromissione diplomatica in una lotta decisiva per l'Italia non poteva essere ragionevolmente considerata che come prova della ferma decisione presa da Taranto di uscire dallo stato di passività, in cui si era fino allora tenuta.
      E veramente era il caso di metter mano ai fatti, per quanto riuscisse difficile e pericoloso ai Tarentini di intraprendere una guerra; giacchè l'indirizzo democratico aveva ridotto le forze dello stato quasi intieramente alla marineria, la quale, col sussidio del numeroso naviglio mercantile, assicurava a Taranto il primo posto fra le potenze marittime della Magna Grecia, mentre l'esercito di terra, in cui stava tutta l'importanza per la guerra sannitica, era composto quasi tutto di mercenari ed era in piena decadenza.


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Storia di Roma
2. Dall'abolizione dei re di Roma sino all'unione dell'Italia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 376

   





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