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      Non ci mancano prove per dimostrare come, nemmeno in Cartagine, i Fenici abbiano saputo uscire dalla loro congenita indifferenza politica.
      Questa città continuò fino ai tempi della sua maggiore fortuna a corrispondere un censo ai Berberi indigeni, tribù di Massitani o Massii, per il suolo che occupava; e sebbene il mare ed il deserto la proteggessero molto bene da ogni attacco delle nazioni orientali, pare tuttavia che Cartagine abbia riconosciuta, e se foss'anche solo di nome parrebbe incredibile, l'alta sovranità del gran re, e in certi casi, per assicurarsi le relazioni commerciali con Tiro e coll'Oriente, si sia rassegnata anche a pagargli un tributo.
      Ma, ad onta della loro volontà accomodante ad ogni costo, nacquero eventi che spinsero quei Fenici ad una politica più energica.
      Per non vedersi travolti dalla corrente della migrazione ellenica, che traboccava sull'Occidente, e che già aveva cacciato dalla Grecia propriamente detta e dall'Italia i loro connazionali, e stava per soppiantarli anche in Sicilia, in Spagna e fin nella Libia, i Cartaginesi dovettero pensare ad opporre una valida resistenza. Qui, avendo da fare con mercanti greci e non già col gran re, non bastava rassegnarsi all'omaggio e al tributo per poter continuare come prima negli avviati commerci. Già erano state fondate le stazioni greche di Massalia e di Cirene; scali greci si erano aperti su tutto il litorale orientale della Sicilia. Non v'era tempo da perdere, e occorreva difendere non la dignità, ma il mercato e la borsa.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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