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      Da lungo tempo s'erano andate accumulando in Cartagine materie incendiarie, ed ora quasi a viva forza vi si attiravano vicino coloro che potevano appiccarvi il fuoco.
      E proprio come un incendio, la sommossa si propagò da guarnigione a guarnigione, da villaggio a villaggio; le donne libiche offrirono i loro gioielli per pagare la mercede ai soldati; un gran numero di Cartaginesi, fra i quali alcuni distinti ufficiali dell'esercito siciliano, rimasero vittime della soldataglia esasperata; già Cartagine si trovava stretta d'assedio da due parti, e l'esercito cartaginese, che aveva fatto una sortita, era stato completamente sconfitto per l'imperizia del suo generale.
      Quando giunse a Roma la notizia di questo fatto e si seppe che il sempre odiato e temuto nemico attraversava così dure difficoltà, quali mai non gli avevano potuto cagionare le armi romane, si ricominciò a rimpiangere d'aver conclusa la pace del 513=241 troppo precipitosamente, dimenticando come in quel tempo, Roma era tanto esausta di forze, quanto invece era salda e vigorosa Cartagine.
      Un certo senso di pudore impedì ai Romani di entrare in aperti negoziati coi ribelli di Cartagine, anzi essi consentirono in via d'eccezione che i Cartaginesi, per questa guerra, arruolassero gente d'armi in Italia e vietarono ai navigatori italici di aver commercio coi libici.
      Può dubitarsi però che questi ordini siano stati dati seriamente, giacchè si sa che, malgrado ciò, continuando il traffico dei ribelli africani coi navigatori romani, e, avendo Amilcare - il quale, mosso dall'estremo pericolo della patria, aveva di nuovo preso il comando dell'esercito cartaginese - catturato parecchi capitani italici presi in flagrante, il senato romano interpose i suoi uffici in favore di costoro presso il governo cartaginese e ne ottenne la liberazione.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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