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      I Romani non avevano preveduto un attacco da quella parte e non avevano pensato che i Celti, trascurando le fortezze romane poste sulla costa orientale e l'appoggio dei propri connazionali, avrebbero osato marciare direttamente sulla capitale.
      Non molto tempo prima un'altra orda di Celti aveva nello stesso modo inondata la Grecia.
      Il pericolo era grave e sembrava ancora più grave di quello che realmente fosse.
      La credenza che questa volta la rovina di Roma fosse inevitabile e che il territorio romano dovesse, per destino ineluttabile, divenire preda dei Galli, era nella stessa capitale così diffusa tra le masse, che lo stesso governo non stimò contrario alla sua dignità scongiurare il grossolano pregiudizio del volgo con un pregiudizio ancora più grossolano, sotterrando vivi nel foro romano un uomo ed una donna gallici quasi per dar compimento ai decreti del destino.
      In pari tempo si presero però efficaci misure. Dei due eserciti consolari, ciascuno dei quali contava 25.000 fanti e 1100 cavalieri, l'uno era stanziato in Sardegna sotto gli ordini di Caio Attilio Regolo, l'altro a Rimini sotto Lucio Emilio Papo. Entrambi ricevettero l'ordine di recarsi con tutta la possibile celerità in Etruria, come quella che era la più minacciata.
      I Celti erano stati già costretti a lasciare nel loro paese un presidio per difenderlo contro i Cenomani ed i Veneti alleati dei Romani; ora gli Umbri, scesi in massa dai loro monti furono spinti nelle pianure dei Boi per devastarne le campagne e recare al nemico ogni possibile danno.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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