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      Persino l'elezione di un successore non si fece più dalle autorità della capitale, ma dall'esercito, cioè dai Cartaginesi impiegati nell'esercito come gerusiasti od ufficiali, i quali figurano anche nei trattati; naturalmente il diritto di conferma era riservato all'assemblea popolare.
      Siano state o no queste misure una usurpazione, esse accennano però chiaramente al fatto che il partito della guerra considerava e trattava l'esercito come una sua proprietà. Rispetto alla forma, il compito d'Amilcare era modesto.
      Le guerre colle tribù della Numidia, sui confini dello stato, non cessavano mai; e da poco tempo era stata occupata dai Cartaginesi la «città delle cento porte» Theveste (Tebessa), posta nell'interno del paese. La continuazione di queste ostilità, che toccò in sorte al nuovo supremo comandante, non aveva certamente una tale importanza, per cui il governo cartaginese, che nella più prossima sua sfera d'azione aveva pure le mani libere, avesse dovuto curarsi delle deliberazioni prese a questo riguardo dall'assemblea popolare, mentre i Romani non ne conoscevano forse nemmeno l'importanza.
      Alla testa dell'esercito trovavasi quindi quell'uomo che, tanto nella guerra siciliana quanto nella libica, aveva dimostrato che il destino aveva assegnato a lui o a nessun altro il compito di salvare la patria. L'esercito doveva essere lo strumento, ma quale esercito? La milizia cittadina condotta da Amilcare aveva dato prove di valore nella guerra libica; ma egli sapeva benissimo che passa una capitale differenza tra il condurre per una volta al campo di battaglia negozianti ed artigiani di una città ridotta alla disperazione, e il trasformare gli stessi in soldati.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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