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      Annibale conosceva l'uomo e nulla trascurò per eccitarlo alla battaglia; i villaggi gallici rimasti fedeli ai Romani furono barbaramente devastati, e quando in conseguenza di ciò si impegnò un combattimento di cavalleria, Annibale concesse agli avversari l'onore della vittoria.
      Ma non tardò molto che, in una rigida e piovosa giornata, senza che i Romani se l'aspettassero, si venne alla battaglia campale.
      Sino dai primi albori la fanteria leggera dei Romani aveva scaramucciato colla cavalleria leggera del nemico; questa cedeva lentamente, e i Romani, approfittando dell'ottenuto vantaggio, la inseguivano con impeto oltre la Trebbia, oltremodo ingrossata. Tutt'a un tratto la cavalleria si fermò; l'avanguardia dei Romani si trovò nel campo scelto da Annibale e di fronte al suo esercito schierato in battaglia; essa era perduta se il grosso dell'esercito non passava tosto il fiume. I Romani giunsero affamati, stanchi e bagnati, e si affrettarono ad ordinarsi, i cavalieri come al solito sulle due ali, la fanteria in mezzo. Le truppe leggere, che da ambo le parti formavano l'avanguardia, iniziarono il combattimento; ma quelle dei Romani ebbero ben presto scoccati contro la cavalleria quasi tutti i loro dardi e indietreggiarono; lo stesso avvenne sulle ali della cavalleria, molestata di fronte dagli elefanti e dai cavalieri cartaginesi, molto superiori in numero, che l'attorniavano a diritta e ad a manca. La fanteria romana si mostrò degna della sua fama; si battè in principio della battaglia con decisa superiorità contro la fanteria nemica, e anche quando, respinta la cavalleria romana, quella dei Cartaginesi coi suoi armati alla leggera potè svolgere i suoi attacchi contro la fanteria, questa, se non potè avanzare, nemmeno ripiegò.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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