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      Nei comizi si venne a scene tremende contro il vecchio ostinato; i suoi avversari politici, con a capo Marco Terenzio Varrone, ottennero il sopravvento e, di concerto coi soldati malcontenti e coi possessori dei beni saccheggiati, fecero passare un plebiscito contrario alla costituzione ed al buon senso, in forza del quale la dittatura - che aveva per scopo di togliere l'inconveniente della divisione del supremo comando quando la patria era in pericolo - veniva accordata tanto a Quinto Fabio quanto a Marco Minucio che era stato fino allora suo luogotenente(28). Per tal modo l'esercito romano, la cui pericolosa divisione in due corpi era stata per l'appunto saviamente eliminata, fu non solo diviso, ma alla testa delle due metà furono posti due condottieri che seguivano evidentemente piani di guerra affatto diversi.
      Quinto Fabio si attenne, come era naturale, più che mai alla sistematica sua prudenza; Marco Minucio, credendosi obbligato a giustificare il suo titolo dittatoriale sul campo di battaglia, attaccò troppo precipitosamente e con poche forze il nemico, ma ne sarebbe uscito col capo rotto se il suo collega, accorso a tempo con un corpo di truppe fresche non avesse impedito un maggiore disastro.
      Quest'ultimo indirizzo delle cose giustificò in certo qual modo il sistema della resistenza passiva. In realtà Annibale aveva ottenuto in questa campagna tutto ciò che si poteva ottenere colle armi; nè l'avversario impetuoso, nè quello circospetto poterono impedirgli alcuna operazione essenziale, ed il suo approvvigionamento, sebbene non senza difficoltà, era pure riuscito così bene che il suo esercito attendato presso Geronio passò l'inverno senza il minimo disagio.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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