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      Ma l'avvenimento di maggiore importanza fu il principio del disgregamento della federazione romana dopo aver resistito due anni difficili alle scosse della guerra.
      Passarono dalla parte di Annibale Arpi nell'Apulia e Ugento nella Messapia, due antiche città danneggiate gravemente dalle antiche colonie romane di Lucera e di Brindisi; tutte le città dei Bruzi - queste prima di tutte le altre - ad eccezione dei Peteli e dei Cosentini, i quali dovettero esservi costretti coll'assedio; la maggior parte dei Lucani; i Picentini trapiantati nelle vicinanze di Salerno; gli Irpini, i Sanniti ad eccezione dei Pentri; infine e particolarmente Capua, la seconda città d'Italia, che poteva mettere in campo 30.000 fanti e 4.000 cavalieri, il cui esempio fu tosto seguito dalle vicine città di Atella e di Calazia.
      Il partito della nobiltà, legato per molti rapporti ai romani, fece senza dubbio da per tutto, e particolarmente in Capua, una seria opposizione a tale cambiamento di partito, e le ostinate lotte interne che ne derivarono, scemarono non poco il vantaggio che Annibale ne poteva trarre. Egli si vide, per esempio, costretto a Capua a far arrestare e condurre a Cartagine uno dei capi del partito della nobiltà, Decio Magio, il quale, anche dopo l'ingresso dei Cartaginesi, continuava a propugnare ostinatamente l'alleanza romana, offrendo così l'incomoda prova di come si dovessero apprezzare le promesse di libertà ed autonomia solennemente fatte dal generale cartaginese ai Campani.
      I Greci dell'Italia meridionale invece si tenevano fedeli alla federazione romana; al che, naturalmente, contribuivano anche i presidii romani e più di essi la decisa antipatia dei Greci per i Cartaginesi, nonchè pei loro nuovi alleati, Lucani e Bruzi, e il loro attaccamento per Roma, la quale aveva sempre colto ogni occasione per dimostrare con i fatti la sua simpatia per i Greci e aveva manifestato una insolita benevolenza verso i medesimi in Italia.


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Storia di Roma
3. Dall'unione d'Italia fino alla sottomissione di Cartagine
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 371

   





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