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      Quando morì, nessuna speranza poteva più illuderlo; nella lotta di dieci lustri egli aveva veramente mantenuto, da uomo d'onore, il giuramento prestato da fanciullo.
      Quasi nello stesso tempo, probabilmente nello stesso anno, moriva anche Publio Scipione, l'uomo che i Romani solevano chiamare il vincitore di Annibale.
      La fortuna l'aveva colmato di tutti i successi negati al suo avversario, successi che gli appartennero e che non gli appartennero.
      Egli aveva aggiunto al dominio romano la Spagna, l'Africa, l'Asia; e Roma, ch'egli aveva trovata primo fra i comuni d'Italia, alla sua morte era la dominatrice del mondo civilizzato. Egli stesso era così onusto di gloria e di vittorie che ne rimasero per suo fratello e suo cugino(11).
      E malgrado ciò, egli pure visse gli ultimi suoi anni nell'amarezza e morì in volontario esilio, avendo di poco passato i cinquant'anni, ordinando ai suoi di non tumulare il suo cadavere nella città nativa, per la quale egli aveva vissuto e nella quale riposavano gli avi suoi.
      Non si conosce bene la causa che lo spinse ad allontanarsi dalla città. Le accuse di corruzione e di sottrazione di danaro promosse contro di lui, ed ancora più contro suo fratello Lucio, altro non erano che mere calunnie, che non saprebbero giustificare a sufficienza una simile esacerbazione; benchè sia sintomatico, per quest'uomo, il fatto ch'egli abbia lacerato i suoi registri al cospetto del popolo e dei suoi accusatori invece di servirsene per giustificare il suo operato, invitando i Romani a seguirlo nel tempio di Giove per solennizzare l'anniversario della sua vittoria di Zama.


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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 343

   





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