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      A tutte le grandi guerre - eccettuata quella sostenuta per la Sicilia, quelle combattute contro Annibale e contro Antioco, come a quelle fatte con Filippo e con Perseo - essi furono, di fatto, costretti o da un'immediata aggressione o da un inaudito turbamento delle esistenti condizioni politiche, e quindi, d'ordinario, anche sorpresi dallo scoppio del turbamento stesso.
      Il non avere dato, dopo la vittoria, prova di moderazione nell'interesse dell'Italia - come avrebbero dovuto fare - la conservazione della Spagna, l'accettazione della tutela dell'Africa e soprattutto il piano quasi fantastico di apportare la libertà ai Greci, è chiaro che furono errori madornali a danno della politica italica.
      Ma le cause di questi errori sono in parte il cieco timore di Cartagine, in parte l'infatuazione, ancora più cieca, per la libertà ellenica.
      I Romani manifestarono in quest'epoca, più che la volontà di fare delle conquiste, un giudizioso timore di esse.
      La politica romana non è, ovunque, il parto d'una sola mente sublime ereditata da generazione in generazione, ma la politica di un'assemblea validissima, sebbene alquanto limitata, di senatori, la quale molto difficilmente poteva arrivare alle grandi combinazioni, e possedeva un istinto troppo giusto per la conservazione della propria repubblica per aspirare ai piani di un Cesare e di un Napoleone.
      La signoria universale dei Romani si appoggia, in ultima analisi, sullo svolgimento politico dell'antichità in generale.
      Il vecchio mondo non conosceva l'equilibrio delle nazioni, e ogni nazione, che aveva acquistata l'unità nel suo interno, tentava o di assoggettare addirittura i suoi vicini, come fecero gli stati ellenici, o per lo meno di renderli innocui come fece Roma, ciò che, in ultima analisi, si risolveva in una sottomissione.


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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 343

   





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