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      Un'ulteriore conseguenza della potenza unilaterale dei capitali, era la sproporzionata importanza assunta dai rami del commercio, che erano appunto i più sterili e, in generale, i meno produttivi per l'economia nazionale.
      L'industria che doveva figurare in prima linea, si trovava nell'ultima. Il commercio fioriva, ma era generalmente passivo.
      Pare che i Romani non fossero in grado, nemmeno ai confini settentrionali, di provvedere con merci al pagamento degli schiavi che affluivano a Rimini e sugli altri mercati dell'alta Italia dai paesi dei Celti e probabilmente anche da paesi tedeschi; giacchè fino dal 523=231 fu dal governo romano vietata l'esportazione della moneta d'argento nel paese dei Celti.
      Nel traffico colla Grecia, colla Siria, coll'Egitto, con Cirene e con Cartagine il bilancio doveva necessariamente risultare a danno dell'Italia.
      Roma incominciava a diventare la capitale degli stati del Mediterraneo e l'Italia il territorio suburbano di Roma; i Romani non desideravano nulla di più, e nella loro opulenta indifferenza si accontentavano del commercio passivo, come lo esercita qualunque città che non sia nulla più che una capitale; essi erano, d'altronde, così forniti di denaro, da non essere imbarazzati a pagare, oltre tuttociò che era necessario, anche il superfluo.
      I più ingrati di tutti gli affari, invece, cioè il traffico del denaro e la riscossione delle entrate, erano il grande sostegno e la rocca forte dell'economia nazionale romana.
      Gli elementi che la medesima serbava ancora per far fiorire un ceto medio agiato ed una classe inferiore provvista di sufficienti mezzi di sussistenza, furono sciupati nel sistema dell'impiego degli schiavi, o servirono ad aumentare la misera classe dei liberti.


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Storia di Roma
4. Dalla sottomissione di Cartagine a quella della Grecia
di Theodor Mommsen
Stampa Aequa Roma
1938 pagine 343

   





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