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      Perciò chi muore - ecco il problema, - potrebbe pur sempre provare dolore in due maniere: nella fisica o, meglio, fisiologica, che consisterà nel passaggio dell’organismo da uno stato di vitalità ad uno di perpetua inerzia, con annullamento di tutti i suoi poteri; e nella psichica, che sarà formata per l’appunto dalla "coscienza di morire".
      Anni fa anche questo argomento, sotto il titolo dell’"io dei moribondi" fu lungamente discusso in Francia tra filosofi e medici. Si ricavarono conclusioni a parer mio abbastanza dubbie, dalle dichiarazioni di individui scampati all’annegamento, all’impiccagione, allo strangolamento, o precipitati in gite alpinistiche, ecc.; ma si calcò sopratutto sui fatti puramente psicologici autoosservati in quei frangenti, ad es., la rapidità estrema del pensiero (del tutto illusoria, essendovi, come si sa, un tempo ben determinato dalla Psicometria per tutte le operazioni mentali) e la riapparizione in sintesi di tutta la vita passata (altra illusione, tratta dalla evocazione sommaria di pochi, magari non più di due o tre avvenimenti culminanti, come nel sogno).
      Si disse intanto che il morire non doveva essere doloroso, anzi piacevole [?], perchè nel morente la sensibilità tattile e quella dolorifica si perdono presto, mentre rimarrebbero più a lungo conservati i sensi specifici della vista e dell’udito: paradosso imperdonabile in chi per poco conosca le leggi di sviluppo della funzione sensoria. E si richiamarono fatti leggendarii o storici, e brani di poesia o di letteratura, dove si legge idealizzata la "dolcezza" del morire: fioritura romantica, nient’altro.


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L'uccisione pietosa (L'eutanasia)
In rapporto alla Medicina alla Morale ed all'eugenica
di Enrico Morselli
Editore Bocca Torino
1928 pagine 230

   





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