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      Ma intanto ciò che sappiamo sulla enorme facilità di quei lontani preparatori della Civiltà Occidentale nel suicidarsi, ci lascia perplessi sulla loro forza d’animo nel sopportare il dolore anche fisico.
      Chi si uccide per mali insopportabili o insanabili lo può fare in due momenti psicologici: o trascinato dal dolore, che gli turba e oscura la coscienza e lo porta all’atto impulsivo di darsi la morte, che è quello denominato da Appiano Buonafede il "suicidio furioso"; o condotto dalla considerazione della intollerabilità del male e dell’inestimabile vantaggio di liberarsene di propria mano, sfuggendo con deliberato proposito al proprio penoso destino, e avremo quello che il Buonafede medesimo chiamava e disapprovava come "suicidio ragionato". Sarà difficile nei casi singoli stabilire dove termini la fredda riflessione, la libera volontà, la "ragione", e dove cominci la irriflessione, l’impulso sragionato, il "furore". Il suicidio veramente "ragionato" sarà solo quello che viene eseguito per un principio filosofico, per una fede religiosa, come facevano i seguaci di Egesia il Cirenaico, e, a quanto sembra dalle vecchie storie e leggende, i Pitagorici, i Cinici, gli Stoici, più tardi gli stessi martiri del nascente e contrastato Cristianesimo.
      Tutta l’Antichità classica è piena di suicidî in tal modo "ragionati"; in realtà essi spettano pertanto all’eutanasia, alla "morte buona" preferita al male fisico. Il Buonafede riferisce al suo Cap. VI, § 6°, di "coloro che si uccisero per malattie, e di alcuni fra questi, che il fecero assai tranquillamente e ragionatamente", e ne dà moltissimi e illustrissimi nomi.


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L'uccisione pietosa (L'eutanasia)
In rapporto alla Medicina alla Morale ed all'eugenica
di Enrico Morselli
Editore Bocca Torino
1928 pagine 230

   





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