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      Quelle smanie, lo confesso, erano il solo premio della mia abnegazione, benché dappoi spesse volte ho pensato che l'era piú orgoglio ed ostinazione che amore per me. Ma non mescoliamo i giudizi temerari dell'età provetta colle illusioni purissime dell'infanzia. Il fatto sta che io non sentiva le busse che mi toccavano sovente per quella mia arroganza di volermi accomunar nei giochi alla Contessina, e che contento e beato mi riduceva nella mia cucina a guardar Martino che grattava formaggio.
      L'altra figliuola della Contessa, che avea nome Clara, era già zitella quando io apersi gli occhi a guardare le cose del mondo. Era dessa la primogenita, una fanciulla bionda, pallida e mesta, come l'eroina d'una ballata o l'Ofelia di Shakespeare; pure ella non avea letto nessuna ballata e non conosceva certo l'Amleto neppur di nome. Pareva che la lunga consuetudine colla nonna inferma avesse riverberato sul suo viso il calmo splendore di quella vecchiaia serena e venerabile. Certo non mai figliuola vegliò la madre con maggior cura di quella ch'essa adoperava nell'indovinar perfin le brame della nonna: e le indovinava sempre perché la continua usanza fra di loro le aveva avvezzate ad intendersi con un sol giro di occhiate. La contessa Clara era bella come lo potrebbe essere un serafino che passasse fra gli uomini senza pur lambire il lezzo della terra e senza comprenderne l'impurità e la sozzura. Ma agli occhi dei piú poteva parer fredda, e questa freddezza anche scambiarsi per una tal qual alterigia aristocratica.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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