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      La Pisana folleggiava con me da vera pazzerella: pareva che quel suo ghiribizzo momentaneo non avesse lasciato traccia alcuna né nella memoria né nella coscienza; io mi consolai di ciò, mentre se fossi stato ben avveduto, avrei dovuto spaventarmene. Mi abbandonai dunque con piena sicurezza a quella corrente di felicità che mi trasportava; tanto piú sicuro e beato, che la fanciulla mi sembrò a que' giorni docile amorosa e fin'anco umile e paziente quale non era mai stata. Era un tacito compenso, offerto senza saperlo, dei torti fattimi? Non lo saprei dire. Forse anche la timorosa adorazione di Lucilio aveva svezzato per poco l'anima sua dai moti violenti e tirannici; a me dunque toccava raccogliere quello che un altro aveva seminato. Ma questo dubbio che adesso mi avvilirebbe, allora non mi passava nemmeno pel capo. Bisogna aver vissuto e filosofeggiato a lungo per imparar a dovere la scienza di tormentarsi squisitamente.
      La Contessa benché lievemente indisposta migliorava assai a rilento. Era cosí piena di scrupoli e di smorfie che non bastavano l'eloquenza italiana e latina del dottor Sperandio, la pazienza di Lucilio, i conforti di monsignor di Sant'Andrea, le cure del marito e della Clara e quattro pozioni al giorno, per calmarla un poco. Soltanto un giorno che le fu annunziata la visita della cognata Frumier, si riebbe subitamente e dimenticò l'infinita caterva dei suoi mali per pettinarsi, pulirsi, mettersi in capo la piú bella e rosea cuffietta della guardaroba, e farsi addobbar il letto con cuscini e coperte orlate di merlo.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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