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      Si stupiva prima di tutto dell'idea: non era quello il tempo che la Repubblica potesse sguinzagliare i suoi nemici piú accaniti, quando appunto si occupava di spiarli e di renderli impotenti per quanto era fattibile. I castellani dell'alta erano tutti male affetti alla Signoria; l'esempio del Venchieredo avrebbe servito a correggerli, fors'anche non bastava, e con soverchia indulgenza erasi preservata la famiglia di lui dagli effetti della condanna. Nulla è pernicioso piú della potenza concessa agli attinenti dei nostri nemici; bisogna sempre tagliar il male nelle radici perché non rigermogli. Solo di non aver fatto questo si pentiva la Signoria. Del resto, non parlava al Senatore che era superiore ad ogni sospetto e tratto in quella faccenda da suggestioni e preghiere altrui, ma badassero bene gli amici del Venchieredo a non lasciar travedere in una soverchia benevolenza verso di questo la loro fedeltà tentennante e le opinioni intinte forse di quelle massime sovvertitrici che, venute d'oltremonti, minacciavano di rovina gli antichi e venerabili ordini di San Marco. In tempi difficili maggiore la prudenza; questo a loro norma, perché l'Inquisizione di Stato vegliava senza rispetto per alcuno.
      Il Senatore, nella sua qualità di patrizio veneziano, tenea dietro con orgoglio ai diversi sentimenti di maraviglia, di dolore, di costernazione che si dipingevano in viso al cognato mano a mano che rilevava qualche periodo di quella lettera. Finita ch'egli la ebbe il foglio gli cadde di mano, e balbettò non so quali scuse e proteste.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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