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      Io non mi stancava di osservare quei suoi occhietti bigi un po' sanguigni un po' loschi, che per tanti anni avevano guardato il sole d'Oriente, e quelle rughe capricciose e profonde formatesi sotto il turbante al lavorio corrosivo di Dio sa quali pensieri, e quei gesti un po' autorevoli un po' marinareschi che armeggiavano sempre per commentare la zoppicante oscurità di un gergo piú arabo che veneziano. Si vedeva un uomo avvezzo alla vita; il che vuol dire che non si fa piú caso di nulla, che crede a poco, che spera meno ancora, e che sacrificatosi per lungo tempo alla speranza d'una futura commodità, trova tutto agiato tutto commodo perché tutto mena all'ugual fine. Cosí i mezzi sono alle volte scuola ed esercizio a disprezzar il fine. In tal modo almeno io giudicai mio padre; e confesso sinceramente che mi misi intorno a lui fin dapprincipio con maggior curiosità che amore. Mi pareva che tali dovessero essere stati que' vecchi mercatanti veneziani della Tana o di Smirne, che a furia di furberia, di chiacchiere e d'attività facevano perdonare o dimenticare dai Tartari la differenza di fede. Turchi a Costantinopoli, cristiani a San Marco, e mercanti dovunque, avevano essi fatto di Venezia la mediatrice dei due mondi d'allora. Perfino una certa barbetta rada grigia e stizzosa accostava la fisonomia di mio padre alla maschera di Pantalone; ma egli veniva tardi sulla scena del mondo. Mi pareva uno di quei personaggi comici ancor travestiti da Persiani o da Mamalucchi che dopo calato il sipario escono ad annunziar la commedia per l'indomani.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253

   





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