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      Dover morire come il topo del granaio e la rana della palude, senza lasciare un'orma profonda incancellabile del proprio passaggio!... Morire a ventott'anni, assetato di vita, avido di speranza, delirante di superbia, e sazio solo d'affanno e d'avvilimento! Senza un sogno, senza un fede, senza un bacio abbandonare la vita; sempre col solo spavento, colla sola rabbia dinanzi agli occhi, di doverla abbandonare!... Perché fummo generati? Perché ci educarono e ci avvezzarono a vivere, quasiché durassimo eterni?... Perché la prima parola che vi insegnò la balia non fu morte? Perché non ci abituarono lungamente a fissar il volto, a interrogare con ardito animo questa nemica ignorata e nascosta, che ci assale poi d'improvviso, e ci insegna che la nostra virtù non fu altro che viltà? Dove sono i conforti della sapienza, le illusioni della gloria, le consolazioni degli affetti? - Tutto si getta d'in sulla nave per rifuggire al naufragio; e quando il flutto vorace si spalanca per ingoiarla, rimane solamente sulla piú alta antenna nudo e disperato il nocchiero. Son vani gli sforzi e le lagrime; vane le preghiere o le bestemmie. La necessità è ineluttabile e il confuso fragore dell'onde attuta tre passi lontano le grida del furente e i gemiti del pauroso. Di sotto sta il nulla, tutto intorno l'obblio, di sopra il mistero. - Che mi dice il filosofo?... Dimentica, dimentica! Ma come dimenticare? La mia mente non ha piú che quest'idea sola, i miei nervi non ripercotono al cervello che una sola immagine; le altre idee, le altre immagini son morte per me.


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Le confessioni d'un Italiano
di Ippolito Nievo
Einaudi
1964 pagine 1253